società

Carcere aperto, scuola civile

 

Successo per l'iniziativa che ha consentito alla classe IVB dell’Istituto Tecnico Agrario di Sant'Anatolia di Narco di incontrare alcuni detenuti della Casa di reclusione di Maiano

 

Per singolare invito della Caritas Diocesana di Spoleto-Norcia, nell’ambito del progetto “L’amore… oltre le catene”, gli studenti della classe IVB dell’Istituto Tecnico Agrario di S. Anatolia di Narco hanno incontrato alcune persone detenute nella Casa di Reclusione di Spoleto. Era il 25 novembre scorso, la coincidenza di un mese esatto al Natale. Ed è per l’approssimarsi di questa “Festa della vita” che voglio raccontarvi la nostra piccola storia. 

La dott.ssa Elisabetta Giovannetti e il direttore della Caritas don Edoardo Rossi sono stati i proponenti e i compagni in quest’incontro. Dopo un varco allarmato, e alcune porte pesanti oltrepassate, siamo stati accolti in biblioteca, luogo simbolo della condivisione e delle parole. Parole stavolta non saltate fuori dal silenzio dei libri ma donate dalle voci. I libri, se vogliamo, erano i corpi, i pensieri e i cuori delle persone detenute, e i nostri. Tante copertine diverse di cui alcune hanno l’onere di contenere – per chi ha la sciagura di chiudere con il giudizio gli altri nel proprio limite semplificante – solo pagine spaventose, violente e di dolore? Pagine che in pochi hanno l’umiltà di aprire, convinti che non ci sia nulla che gli assomigli, che possa parlargli o perfino insegnare qualcosa. Spesso, ho pensato, semplifichiamo addirittura il desiderio… rendendolo uno: il nostro. Invece, accanto al nostro desiderio di aprire o meno un “libro”, c’è anche il desiderio del suo autore di essere “letto”: riconosciamo alle persone l’essenziale desiderio umano di essere ascoltate, comprese, sicuramente amate?

Al tavolo della biblioteca io e il prof. Emiliano Di Porzio – altro insegnante accompagnatore – sedevamo alternati alle persone recluse. Non ci abbiamo pensato nel farlo, così come gli studenti non l’hanno fatto forse nel porsi tutti dall’altro lato del tavolo. Chissà, magari abbiamo solo assecondato inconsciamente un ruolo, come spesso avviene nella vita e nella società: il ruolo dell’insegnante “morale” e dello studente “rivale”. Ma non importa questo, invece importa sollevare la “copertina”, aprire il libro e leggere. Perché in quella piccola moltitudine era convenuto tutto ciò che abita in noi: la verità della colpa e quella della speranza, la paura e la fiducia, la pena e la libertà… In fondo, c’era l’essenziale verità dell’uomo: quella del Dolore e dell’Amore. 

Insegnanti che sanno “spiegare” solo apprendendo insieme, studenti custodi di un’identità ancora incerta – da preservare dall’altra parte del tavolo – o troppo certa forse… per ospitare le difficili sfumature del Vero, uomini che ci parlavano desiderosi di raccontare una prigione e il loro efficace piano d’evasione: per noi non entrarci proprio – nella droga –, mentre per loro è non voltargli mai le spalle, raccontarla per non servirla più. Sì, Carlo, Giovanni, Michele, Salvatore, poi Bruno e Giovanni con le loro lettere per noi, insieme a tutti gli altri presenti, ci hanno parlato della droga. Ma ciò che ho sentito è una preghiera per l’amicizia vera – da cercare scandagliando sempre quell’abuso frettoloso ch’è la parola “amici” –, per il dovere di non lasciare solo chi sbaglia, per il progetto buono che ciascuno deve avere per sé e coltivare senza mai perderlo di vista. Una preghiera accompagnata da un ammonimento sulla solitudine che c’è nei ceppi della dipendenza dalla droga e sulla lacerazione tragica del conseguente sciagurato abbandono delle persone che ci vogliono bene, sull’augurio di avere sempre con noi il coraggio per non tradire sé stessi né i propri cari. La forza di queste parole ci ha permeato come le gocce di una benedizione. Abbiamo ascoltato anche del lavoro intrapreso da alcuni nel carcere e dell’importanza dello sport, del percorso scolastico seguito lì dentro – a volte fino alla laurea – e di una sentita ricerca bibliografica accuratamente realizzata da Giovanni sulle droghe che, credeteci, “non sono mai un bene ma ciò che distrugge tutto quanto è intorno a te, che ti segna nel tempo, che ti fa scappare dalle cose belle ed entrare in quelle brutte” chiudendoti dietro una porta che poi è molto difficile riaprire. Questi nuovi compagni ci hanno parlato di donne e di famiglia – che c’erano nei tempi difficili “fuori” e ci sono oggi –, di bambini e ragazzi – figli o nipoti – nel modo discreto che evoca soltanto, risparmiando parole, come si addice ad ogni cosa bella e preziosa. Infine abbiamo parlato del senso delle Istituzioni e della Società. 

Cosa c’entra la scuola con il carcere? Cosa c’entra la persona – oggi sciaguratamente sempre più “individuo” – con queste istituzioni? Intorno a quel tavolo non c’era contrapposizione, né isolamento. Forse perché tutti noi “esterni” quel giorno abbiamo avuto il privilegio di chiudere fuori qualcosa: i cellulari, i voti e i registri, i simboli – comodi e riduttivi – delle manette e dei pigiami a strisce, insieme all’orgoglio di dire “questo a che serve?” avendo già in tasca la prima delle risposte banali, per evitare l’incontro. È così che infine abbiamo mollato anche l’illusione di poter essere vicini agli altri in modo “virtuale” – magari con uno smartphone – o di essergli distanti per uno scontato “sentito dire”. Questi congegni ingannevoli, che usiamo troppo spesso forse, nascondono una distanza inumana e preoccupante, e soprattutto ci offrono perniciose dipendenze per non colmarla. Una distanza che abbiamo scoperto essere la vera prigione. Negli enunciati “non lasciate da solo chi sbaglia”, “in questo carcere ho potuto studiare mentre in un altro carcere ho buttato soltanto anni di vita”, “studio per me stesso prima che per una finalità materiale” c’era poi il senso di un comune sentire educativo. Sì, lo studio e la condivisione come naturali strumenti per umanizzare la propria vita, e insieme la necessità di restare fedeli all’uomo prima che alle idee di “sbaglio”, “pena” o “merito”.

 Perché un carcere che si occupi solo di recludere, piuttosto che creare spazi di cura e attenzione umane a quell’unicità che siamo, non fa che consolidare le chiusure e le ferite che ciascuno si è inflitto, procurandogli contesti di rinforzo. E la scuola? Gli studenti e i professori? Qual’è il nostro rapporto con il dovere interiore e il “dover essere” d’etichetta, con l’errore, e con la pena – o il premio – ch’è il voto? Se la nostra identità non è generativa ma solo asservita o ribelle, se i processi educativi non sono co-agiti ma solo subiti, se il voto è il “pigliatutto” – come l’asso nelle carte –… a che vale? Sentiamo il merito come una “materia solida” da spendere o procurarsi – come il denaro – oppure come l’unicità profonda che ci abita e a cui dobbiamo cura reciproca? Il merito scorre sempre… come il dono sconosciuto di una sorgente e di tanti affluenti che siamo chiamati a scoprire e conoscere attraverso quell’”educere” – “trarre fuori” – di cui parlava Socrate. Che non avviene nella solitudine né è “segnato” da un destino personale, ma nasce nell’incontro: con l’altro, la natura e il sapere elaborato dagli uomini, secondo il motto di Freire: “Nessuno educa nessuno, nessuno si educa da solo, gli uomini si educano insieme, con la mediazione del mondo”. Ho titolato l’articolo “Carcere aperto, scuola civile…” perché non c’è società che possa separare definitivamente gli uomini dagli uomini senza delitto, né esistere separata da essi.

Ognuno ha un dovere sociale e ciascuno è un dovere per la società. Sogno una società che veda tutti partecipi alla ricerca dell’incastro del muro a secco, l’unico capace di sostenerla senza deformare o scartare i singoli, senza incollarli insieme col falso mito di un progresso solo individuale, che unisce solo per confliggere. Perché nessun imposto cemento può uguagliare quel singolare incontro di umani che sanno amarsi nella diversità, ritrovarsi fratelli – come a Natale – senza i leganti artificiali dell’ipocrisia né i tagli netti del pregiudizio, che glissano. Uomini dalle forme uniche, congiunti con l’armonia delle pietre per reggere la friabile terra della Vita. Restano così spazi aperti, un muro permeabile di interstizi che la terra connette per schiuderci fiori. 

Allo stesso modo non può esserci scuola senza l’incontro tra tutte le istituzioni della società che operano, in fondo, per lo stesso fine educativo. L’abbiamo compreso ascoltando le voci dei detenuti che abitano propositivamente il carcere, con cui abbiamo condiviso l’urgenza e la bellezza del crescere insieme. Voci di persone che hanno incarnato la dignità dell’istituzione penitenziaria, troppo spesso scordata o oltraggiata. La stessa dignità che noi “liberi” – professori, studenti, personale amministrativo e dirigenti – dobbiamo incarnare per la “nostra” istituzione: la Scuola. Nell’incontro abbiamo scoperto che il cuore di ognuno sogna lontano… di rimediare in fondo a quella sfortuna e disgrazia che diceva Camus: “Non essere amati è una semplice sfortuna; la vera disgrazia è non amare”. 

 

Senza mostrare la carta d’identità in carcere non puoi entrare; lo sa bene un nostro studente sbadato. Ma è cercando di andare oltre quelle “identità” codificate – che gli uomini attribuiscono agli uomini e alle cose – che possiamo restare davvero umani. Identità spesso intese in modo definitorio e divisivo, che invece reclamano rispetto (dal latino “respicere”: guardare indietro, guardare di nuovo, con attenzione) per coglierne il valore dentro un dono di aperura e impegno.

Ringrazio il Dirigente scolastico prof. Massimo Fioroni, la dott.ssa Elisabetta Giovannetti e il direttore della Caritas don Edoardo Rossi per l’occasione offertaci di aprire il carcere ai nostri studenti, per incontrare quella parte di società che ha senz'altro qualcosa da dirci e che certamente si edifica nell’essere ascoltata.   

Un sentito grazie a voi, Persone, prima che detenuti. Ci avete parlato delle droghe, della dipendenza e del male che ha invaso le vostre vite, ma testimoniando, luminose, la consapevolezza e la forza raggiunte. La parola che continua a risuonare in me – pur mai pronunciata in quel luogo confinato – è “libertà”. Evidente conquista di un valore dell’anima che, pur camminando “liberi” per il mondo, noi a volte non abbiamo dentro. Parola che non significa “fa ciò che vuoi” ma piuttosto “diventa ciò che sei”. Ho capito che l’assenza di ideali – per sé e gli altri – è il vero nemico della libertà, che rende tutto prigione e niente più valore. Valore che solo essendoci richiede la scelta: di un modo nostro di vivere, anziché qualunque altro. Perché, in assenza di mete che sostengano cammini, potremmo perfino vivere nella misera dipendenza dalle “cose”. 

Grazie a tutti voi per esserci stati maestri, perché – come dice una cara collega – “Un maestro è chi ti ricorda chi sei”. Chiudo con i pensieri – nell’ordine – degli studenti Francesco Crispoldi, Luca Ferracchiato e Emiliano Severini. Vi ringrazio per il contributo personale offerto alla nostra condivisione: qualcosa di prezioso che va oltre il “compito”. 

“Inizialmente l’atmosfera era molto fredda e distaccata, non avendo mai fatto un’esperienza del genere si percepiva molto timore nell’esporre le nostre curiosità e perplessità. Dopo la presentazione delle persone che abbiamo incontrato lì la situazione si è leggermente attenuata, ci hanno raccontato la loro storia, i loro sbagli ma soprattutto le loro conseguenze. Usciti dalla struttura abbiamo riflettuto molto sulle parole dette, sulle loro storie ognuna diversa dall’altra. Ho percepito sincerità e ho capito che prima di effettuare una determinata azione bisogna rifletterci molto, non solo nell’ambito della droga ma in qualsiasi scelta che ognuno di noi scelga di fare: non dobbiamo essere influenzati ma dobbiamo fare scelte effettuate da noi stessi con responsabilità e intelligenza”.

 

“Quel giorno per me e stato molto importante, perché riesci a capire veramente gli errori che si possono compiere magari solo per essere accettato da amici sbagliati. Il carcere dovrebbe andare di pari passo con la scuola, perché i ragazzi iniziano a fare uso di droghe proprio negli anni scolastici, magari perché hanno paura di essere vittime di bullismo se non provano quelle sostanze. Invece, parlando con delle persone che già hanno passato queste esperienze, forse non ci sarebbe più paura ma consapevolezza della cosa”, dunque forza per evitare di cedere al peggio.

“Da quando ho incontrato i detenuti nel carcere ho pensato a quanto ci vuole poco a rovinarsi la vita per niente. Assomigliavano ai professori, visto che si preoccupavano delle nostre azioni più o meno come i prof. Secondo me quel giorno è stato utile per farmi aprire gli occhi sulla vita reale”.

Nella pancia di una madre non c’è luce, nel carcere sì, filtra impalpabile tra le sbarre… ma può esser meno feconda del buio. Questa esperienza, pur custodita dal grembo metallico della detenzione e cresciuta nella breve gestazione di una mattinata scolastica, spero sia stata invece occasione di tante nascite, diverse – com’è naturale che sia – per ciascuno di noi. 

È sempre utile ricordare una nascita o ri-nascita, perché davvero non è necessario abbandonarsi a un destino. Ai cuori che credono alla nascita nell’incontro, auguri di buon Natale. “Katsumoto: Tu pensi che un uomo può cambiare il suo destino? Nathan Algren: Io penso che un uomo fa ciò che può, finché il suo destino non si rivela” (da “L’ultimo samurai”, film 2003). Pietro Petroni



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